Le sue prime tre manifestazioni parigine, che ebbero luogo alla Galleria Arnaud nel 1952, 1953 e 1954, testimoniano una netta evoluzione morfologica. È fra il 1953 e il 1954 che si situa il “pernio” meccanico della sua opera. L’artista prende in prestito dal mondo delle macchine certe forme che nella lor funzionalità allusiva evocano dei giunti cardanici, dei tubi a gomito o degli isolatori elettrici coi loro fili. Questo elemento morfologico, allo stesso tempo flessibile e preciso, questo caso organizzato, preludono i temi significativi dell’epopea bertiniana. Epopea del tempo presente dove: Il desiderio di Selene, L’Oracolo di Edipo, La voracità di Uranio, Il tormento di Giocasta non sono, per l’autore che dei pretesti per attualizzare delle referenze personali di una mitologia universale. Questi titoli sono degli archetipi che ricoprono un aspetto individualista del significato universale, una posizione dell’uomo in una situazione cosmica.
La visione di Bertini è quella dell’uomo oggi che vigila sia l’acuità della sua coscienza, che quella del mondo. Il senso specifico dei titoli che l’artista prende in prestito da una mitologia generale per caratterizzare il significato dei suoi quadri, illustra bene questo partito preso, è con la referenza mitologica che Bertini intende giustificare l’umanesimo moderno: si tratta di ricostruire i miti dell’uomo d’oggi ed è la sola maniera di ritrovare i miti di sempre.
Il potere intrinseco della significazione che emana dalla macchia strutturante, distingue Bertini dall’ordinario barocco gestuale con il quale intrattiene soltanto delle superficiali corrispondenze morfologiche.
Per la qualità stessa del suo impegno nei confronti dell’umano, il significato di quest’opera si estende ben oltre le posizioni di principio. Il discorso narrativo supera il dominio della pura estetica per attingere una verità morale del comportamento. La grandezza di Bertini, sovente ignorata o troppo sconosciuta – perché del tutto esente dalla bassa demagogia dei buoni sentimenti – risiede là: questa epopea insieme lirica e razionale, esaltata e lucida, si carica di un senso preciso che lo spettatore deve sfrondare, altrimenti non afferra la carica principale.
La situazione dell’uomo contemporaneo (il marchio stesso della sua condizione) nell’affrontare il cosmo non si può giudicare che dall’etica individuale.
Pierre Restany, in Bertini, Musée de Poche, editeur Georges Fall, Parigi 1962
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Anteriormente alla sua vocazione pittorica, Bertini, anche lui aveva subito la possente attrazione delle matematiche. È così naturale che egli abbia domandato a questa disciplina anche se parzialmente da lui dimenticata, gli arcani delle sinuosità armoniche che caratterizzano il suo repertorio grafico. E si può constatare che non è solamente una piacevole visione dello spirito quella di interpretare la sua opera come un tentativo, strano ma fruttuoso, di dare alle matematiche una equivalenza di ciò che è il sogno in rapporto alle realtà diurne.
Pertanto, dal 1953, in seno ad una selva di iperboli, di curve di Gauss e di sinusoidi che costituivano il suo linguaggio di allora, altri elementi, del tutto estranei al dominio dell’algebra o della geometria, invadevano i suoi quadri. Sagome bellicose, ferri di lance o di alabarde, ganci ed arpioni, falci minacciose, segni precursori di un barocco che, da quel momento, si è ampiamente manifestato nell’opera del pittore, nello stesso tempo in cui si precisava nella sua pittura la seconda grande preoccupazione spirituale di Gianni Bertini: questo affresco inquietante composto dalla storia umana, e singolarmente dagli aspetti di questa favola che sono classicamente legati alle mitologie greche e romane. Metodicamente, il creatore, dopo essersi costituito un repertorio di forme, ed essersi esercitato nei contrappunti più stupefacenti, s’indirizzava all’altra leggenda – quella dei Secoli – per fornire il decoro a questo colloquio d’equazioni in delirio. Così i due elementi in presenza si trovano ugualmente e poeticamente malmenati. La marcia del tempo è sottomessa, buon grado e malgrado, alle accelerazioni ed ai rallentamenti più anacronistici: l’equilibrio delle forme si trova compromesso senza sosta per la loro immersione in una atmosfera insolita.
Dopo Scarlatti e Vivaldi, ed i quadri “astratti” di Bertini de 1952-1954, ecco, per la nostra gioia, Offenbach, la grande opera buffa bertiniana, della fauna e della flora e dell’epopea umana generalmente burlesca, a volte tragica. Per questo il cammino del pittore di “Ercole ubriaco” può apparire a sua volta, nell’insieme, come una magistrale curva irrazionale, di cui noi conosciamo ormai gli assi probabili. Come ascisse, il pittore inscrive i dati spaziali e dedica soprattutto gli strani violetti, i gialli pallidi e i bruni selvaggi, agli spazi più propizi a far scattare l’enigma: scogliere della Lampada di Teti, fantomatiche ferrovie si perdono nella notte del Desiderio di Selene; sobborghi di porti equivoci, dove oscilla solo il fanale del naufrago; deserti polari; piste infernali di ossessionanti autodromi; e può anche darsi alcuni siti di una Toscana immemorabile, allorquando tutte insieme le torri si chinano alla vista del crepuscolo.
Come coordinate di questa equazione gigante, Bertini, clown ed istrione, inscrive, con solchi, con ganci e spirali, tutti i dati relativi ai Tempi, a tutti i tempi; ma, elettivamente, ricordiamolo, alcune antichità leggendarie, sia pure mascherandole alla maniera di Hollywood; l’epoca delle grandi invasioni e del barbaro scatenamento delle sue macchine da guerra e, parallelamente o perpendicolarmente, la nostra epoca con le sue grandi invenzioni, i suoi cibernetici deliri e i suoi satelliti fittizi e sonori. Così, con Bertini, si manifesta una delle visioni pittoriche più avvincenti che esistano: grande festival dei complementari e del contraddittorio mondo della solidificazione delle luci e della liquefazione delle rocce, mondo del grande e perpetuo passaggio di tutto verso tutto; dominio impressionante, ma anche divertente, dove i castelli in rovina danzano sui vulcani, mentre una trottola gigante proietta le sue scintille nei campi magnetici devastati dal temporale; universo dove l’infinito reale raggiunge l’infinito immaginario, attraverso una rete continua di prospettive melodiche e di echi invisibili. E si può vedere, grazie a questa impresa singolare, la lancetta della bussola pittorica impazzire più a lungo in direzione di questo polo emotivo, dove ognuna delle tappe che marcano la pittura attuale (con De Chirico e Kandinsky prima, e, più recentemente con Matta e Hartung) ci avvicina un po’ di più, a dispetto delle contraddizioni apparenti.
Un avvenire che si può sperare prossimo dimostrerà, senza dubbio e nella maniera più comprovante, l’alto portato morale e rivoluzionario di una certa astrazione poetica, nella quale oggi non sappiamo vedere che un gioco piacevole. Bisogna confessarlo: la nostra epoca non è ancora quella della piena lucidità. Paragonabili al “navigatore cieco” di Max Ernst, noi siamo ancora ostacolati da mille superstizioni ancestrali. Ma anche di questo noi possiamo fare il nostro pane e la nostra luce, a condizione di possedere l’ineffabile dialettica dell’entusiasmo, come questo creatore d’immagini: Gianni Bertini.
Edouard Jaguer, Presentazione per la mostra alla Galleria La Tartaruga, Roma 8 febbraio 1958