DALLA MEC-ART ALLA LAVORAZIONE IN SERIE
Il valore commerciale di un quadro è sempre stato intimamente connesso a quell’interesse culturale e feticistico che i più attribuivano ad una certa opera. Quindi il proprietario di un’opera non ha mai posseduto niente altro che un semplice rettangolo colorato, rimanendo semplicemente “l’usufruttuario” dell’immagine allo stesso titolo di chi non possedeva quel quadro. Non solo, ma commercialmente era tributario degli altri usufruttari.
Ciò malgrado è sempre rimasto (e lo è ancora) attaccato all’idea che il possesso del pezzetto di tela colorata costituisse un valore commerciale pe r il solo motivo della sua unicità, dimenticando che il valore proveniva invece dall’immagine o dal messaggio. Per cui, se il messaggio (per esprimersi in termini convenzionali) esiste, il limitarlo all’unicità diminuisce semmai l’interesse feticistico e per conseguenza anche quello commerciale che verrebbe ad essere potenziato appunto nel caso di un multiplo, assicurando per di più, anche commercialmente, una quotazione più stabile. Iddio è importante perché la sua immagine è in tutte le case e viceversa.
Uno dei problemi che hanno assillato la mec-art fin dal suo nascere, è stato appunto quello di distruggere il mito del quadro come oggetto unico. I nostri quadri di riporto fotografico sono stati prodotti, fin dall’inizio, in un certo numero di copie ce comportavano talora delle varianti soprattutto come le dimensioni. Oggi, il problema del multiplo non è più un problema circoscritto a quelle poche persone che aderirono al manifesto della mec-art, ma comincia ad essere una larga breccia in cui inopinatamente si ingolfano i prodotti più diversi, dalle serigrafie ai cartelloni, ai manifesti impegnati ai posters ed altre plurimerce. Senonché la dinamica di questi principi parte dal condizionamento della reclamizzazione di un oggetto, senza porsi in modo reale il problema del multiplo ed ancor meno quello della serialità.
La serialità non è un semplice intendimento quantitativo, ma una scelta metodologica, dei materiali e dei macchinari, atti a produrre secondo un processo di lavorazione. Così produrre in serie un quadro che si potrebbe benissimo ottenere manualmente tradisce l’intento. Infatti significa fare semplicemente una “riproduzione” e l’operato non si scosta molto dalle vecchie oleografie popolari dell’Ottocento.
Se davvero siamo alle soglie di un umanesimo scientifico, l’impostazione di un’opera d’arte si dovrà elaborare sviluppando razionalmente un programma.
La progettazione, il susseguirsi delle operazioni da effettuare, il discriminare l’impiego delle macchine e degli strumenti costituisce “l’originale” dell’opera.
L’artista diviene colui che propone, secondo un metodo operativo, un quadro che delle macchine eseguiranno sotto la sua scorta. E poiché l’impiego e l’utilizzazione di un mezzo condizionano anche il risultato finale, l’artista dovrà aggiustare e conformare la propria immagine ed il proprio senso artistico al rendimento ed alle possibilità dell’attrezzatura che egli intende impiegare.
Del resto l’uso dello smalto e del dripping, in un tempo non lontano, condizionò il risultato che non fu quello che la pittura ad olio avrebbe potuto permettere.
Così nel quadro in plastica ed in rilievo che ho realizzato in mille esemplari, lo studio dell’immagine fu per diversi lati subordinata alle deformazioni che la materia plastica subiva nel sotto-vuoto. Le angolature vennero ad arrotondarsi ed il risultato, costituì per me stesso una certa sorpresa, tanto che nei prototipi che ho susseguentemente studiato, ho insistito su questo arrotondamento assumendolo proprio a modulo estetico.
Gianni Bertini, febbraio 1968*
* pubblicato in Essere n.4